Basta poco

Basta poco: una parola letta, una immagine, una frase ascoltata, un oggetto, un profumo, un gesto quotidiano e tutto torna alla mente. Tutto, improvvisamente (ma non spontaneamente) riappare dai magazzini scenografici della memoria. Tutto torna presente. Il più complesso presente virtuale che Dio (o chi per lui) abbia creato.

Bella “invenzione” la memoria: poter ricordare e ricondurre al presente, fatti, eventi, persone, luoghi, sensazioni, emozioni e profumi, da un lontano temporale e spaziale senza confini. Senza limiti di alcunché.

Basta poco… e ritornano immagini accompagnate dal profumo delle lenzuola: ed avverto le tue spalle infreddolite appoggiarsi nude sul mio petto per riscaldarsi offrendo i glutei al mio pube, ancheggiando per assestarsi e conquistare la massima superficie di contatto e spingere al momento giusto per farlo aderire. Riconosco la tua pelle; i polpastrelli seguono la fila di vertebre ed arrivano, deviando, sui fianchi per accarezzarne il profilo e scorrere oltre: fino alla “stellina” di pizzo applicata allo slip.

Basta poco… per ricordare il ricongiungersi delle mani; slego le tue serrate al petto, chiuse a pugno, per invitarti a lasciare libero quel seno che “nasconde l’anima”. Quel seno che amo accarezzare dolcemente e sfiorare delicatamente per accendere sensazioni a lungo nascoste e da altri negate. Accarezzare il profilo del collo, seguire le braccia – finalmente libere – e sentirle aggrapparsi a me, cambiando l’orizzonte degli eventi della notte con un abbraccio.

Basta poco… per udire la voce degli orgasmi che hanno – finalmente – rotto gli argini di gelo, i limiti entro cui erano stati relegati, costretti ed umiliati; avvertire che hanno raggiunto e toccato nuovi confini dove le parole diventano espressioni di appartenenza e bisogno di delicatezza e protezione dalla solitudine. Voglia di amare. Percepire il tuo sapore: delicato, dolce, che odora di fiori e di salsedine. Respiro profondamente – insieme a te – e invado le narici del tuo umore: libero di esprimersi nelle iniziative, nel silenzio degli sguardi.

Basta poco… per vedere i tuoi occhi sereni, sorridenti, da donna-bambina che proiettano sui miei la gioia di sentirsi – finalmente – donna completa per il suo uomo: per lui. Dimenticando disagi, vergogne e tabù adolescenziali – ancora latenti – e silenzi di passività e paura tenuti in vita da un legame disfunzionale.

Basta poco… per trovare labbra – per nulla “invadenti” – che esplorano il (mio) corpo per offrire un invito ad alzarsi per fare colazione; e farsi invadere dalle (prime) parole del mattino, piene di progetti – e sorrisi sui “piccoli imbarazzi” intimi – conditi con l’odore e il calore del caffè. Quelle labbra che ti accolgono al rientro la sera, delicate e desiderose di dolcezza e passione: come un bacio rubato, alla (nostra) “clandestinità”, in un luogo pubblico.

Basta poco… per dimenticarsi di dimenticare.

Lo scriverei cento volte…

Ho fatto questa affermazione e quindi, per coerenza… Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene.

Sala d’attesa

Improvvisamente, senza motivo ho aperto gli occhi. Nessun rumore, nessun suono o segnale ha interrotto il mio sonno. Gli “esperti” lo chiamano risveglio spontaneo: non sono mai stato d’accordo con questa classificazione / definizione. Ridicolo solo a pensarlo.

Ho gli occhi aperti ma questo non significa che io sia vigile, orientato. Sono sbandato. Il “passaggio” è stato repentino e carico di energia come determinato da una forte scossa tellurica ondulatoria; le connessioni alla coscienza sono bloccate. In allarme. Avverto angoscia.

Riconosco, lentamente, la stanza: non è casa mia. Il silenzio è la precisa colorazione del buio di questa notte; lentamente sfuma e diventa sottofondo fino a lasciare posto al tonfo secco e profondo di quell’organo che batte dentro il mio petto spingendo la sua eco fino alla gola arida. L’esofago sembra occluso, bloccato dal respiro disritmico. Avverto le spinte oppositive del torace come se volesse domarlo: sta andando fuori giri e non c’è verso di contenerlo, placarlo. E’ stato attivato chimicamente, in modo autonomo, difficile da quietare: è fuori da ogni controllo. Soprattutto razionale. Le narici sono congestionate, umide. Apro la bocca per respirare e un brivido si diffonde lungo la schiena. Alle orecchie arriva il rumore del fluire del sangue: scorre dietro la nuca. Secco e variabile come il suono sintetizzato del Doppler.

Il tremore delle mani si adegua ai suoni realizzando un ritmo a me noto: insonnia.

Ne avverto la presenza: il suo respiro. Non è la “solita” insonnia. I pensieri che la compongono non sono per nulla chiari, sembrano provenire da un incubo: forse si preparavano a realizzarlo. Pensieri senza volto: certamente ne hanno uno. Bisogna ricomporlo: non è facile data l’enorme agitazione.

Le 2, e lentamente arrivano le 3. Scrivo una e-mail: ho capito tutto. Finalmente. Adesso è tutto chiaro. Come sempre del resto. L’energia inizia a defluire lasciando uno spazio che sarà riempito da una emozione derivata.

Le 3 e mezzo e subito le 4. Forse qui, a questo punto, è arrivato il sonno. Finalmente vengo abbandonato da quegli artigli muscolosi in grado di strappare immagini da una parte sconosciuta del cervello – come fosse carne viva – per simulare realistici scenari di premonizione. Adesso è tutto chiaro: come fosse vero. Reale.

L’alba attraversa la finestra e mi trova addormentato e stanco; i pensieri dentro il caffè sanno di malinconia. Più del solito, molto più. Cresce come la pianta posta sulla cassettiera all’ingresso e prende il posto di tutte quelle sensazioni ormai spente e sento dentro, fino in fondo, una necessaria quanto utile rassegnazione. Un equilibrio accettato ma non certo voluto. Subìto passivamente. Totalmente.

Ho il numero 57, in ambulatorio, e sono arrivati al 32; sarà una lunga attesa stamattina e, stavolta, non ho portato, con me, alcun libro. Disattenzione? Distrazione? Che importa?

Ore 9, 28 la vibrazione del telefono mi informa dell’arrivo di un SMS:

Sono uscita…” [a cena – con lui – ieri sera].

Lo so.”.

200

Le 6 del mattino di qualche giorno fa, come sempre, sul balcone di casa dove alloggio. Mi fa compagnia un libro di una scrittrice scandinava: una vera delusione considerando quanto sia “quotata”.

Stamane nell’aria avverto qualcosa di diverso che non riesco a mettere a fuoco, ad identificare. Non riesco ad individuare la causa, né ad isolare la motivazione di una esagerata sensazione di vuoto.

Solitudine? No; ormai è la mia compagna di vita. Fedele. Io e lei, soli: come su un’isola del mare del Nord. Chiudo quel libro – nel quale ho ravvisato una espressione che mi appartiene – e lascio andare la mente che – da sola – ha scelto un pensiero da seguire; lo riconosco e voglio ricordarlo. Lo lascio andare. Non mi va di allontanarlo e, caso molto strano – oltre che inconsueto – mi confeziono una sigaretta. Non è un buon segno. Questo è noto.

Sì. Seguo il pensiero, le immagini e le reazioni neurofisiologiche: conosco l’origine di questa malinconia. Ho provato a descriverla, qualche tempo fa, pertanto la riporto, qui, nella sua veste originale.

Vicino, qualche tavolo più avanti, sotto la luce di una lampada, un uomo avanti negli anni ma dall’aspetto vivace era immerso nella consultazione di un classico libro di architettura “200”, degli inizi del nuovo secolo.

Affrontava le pagine con fare deciso saltando da un capitolo all’altro come se stesse cercando le prove per la quadratura di una incongruenza. Non esitò a regalargli un sorriso quando incrociò lo sguardo di Robert. I suoi occhi recitavano antichi versi capaci di sciogliere le paure. Rassicuranti e teneri.

Ritrovare – da adulti – le (poche) persone che si sono prese cura della nostra formazione, stimolando, anche con una semplice parola, la viva curiosità, il desiderio di conoscenza e il fascino della ricerca, è una esperienza unica, immensa. Poterle finalmente abbracciare, realmente, significa riconoscere la reciproca valenza tra chi ha dato e chi ne ha fatto tesoro. In quel momento l’allievo restituisce al maestro la sua riconoscenza. Come un padre che ritrova la figlia dopo anni trascorsi a distanza ed insieme iniziano a prendersi cura uno dell’altro pur sapendo che, per uno, il tempo rimasto è breve. Entrambi hanno la certezza di essere stati importanti l’un l’altro, che sono stati sempre uno accanto all’altro; e questo è ciò che si chiama felicità. Quel termine difficile da definire per ogni disciplina umana, diventa finalmente chiaro. Vivo, tangibile, presente. Verificando tutte le risposte su cosa la felicità non è.

Negli occhi di Robert si disegnò presto una gioia che da tempo non apparteneva a quella vita solitaria; quella gioia che tutti ricordano e che molti non hanno più rivisto e solo pochi hanno cancellato dalla loro memoria. Forse qualche linea di nostalgia si stava disegnando tra le pieghe del suo viso. [ndr Lei era lì pag. 219]

Di colpo ravviso cosa aveva scatenato nella mia testa la sensazione di “novità” angosciante, di disagio immotivato alla quale non ero riuscito a dare volto: stamattina non c’era, qui con me, il garrire delle rondini tutto intorno. Non ho udito zinziluare. Sono andate via, tutte insieme. All’improvviso. Il tempo è andato, come sempre: senza avvisare.

Come ha fatto Giulio Romano.

Come vorrei fare io. Adesso.

Come un ponte… sul fiume.

Domenica diversa, questa mia; oggi non vado in Piazza Farnesi a fare provviste alimentari a chilometro zero. Ho terminato i miei impegni didattici a Parma ieri ma ero già dentro questo domani. “And today is only yesterday’s tomorrow”. Un paio di ore di treno e la incontrerò, ci incontreremo. Per la prima volta. Oggi, domenica.

Riempio il tempo guardando il panorama fuori dal finestrino e compilando – allo stesso tempo – una lista dei brani musicali che rappresentano le varie sensazioni che avverto e che vado a raccogliere mentre immagino tutto il “possibile” di un primo incontro. Provo ad figurarmi sguardi e parole da dire, sorrisi, respiri e silenzi da comporre per ascoltare. E perché no: inviti e proposte, scartando ovviamente quelli “indecenti”. Conto gli ultimi minuti, dilatati dal panorama poco noto. Lei sarà già lì.

Scendo dalla vettura e scandaglio con occhi acuti il marciapiede del binario attento a cogliere ogni segnale. Osservo la postura, i movimenti e l’andatura della gente per coglierne gli atteggiamenti. Ognuno attende qualcuno con aria e umore diverso. Guarda e cerca. Centinaia di dati passano al vaglio della mia attenzione per essere filtrati; in fondo non ho una immagine completa di lei; né lei di me. I riferimenti sono altri. Di sicuro ci stiamo reciprocamente cercando: sarà facile riconoscersi. Vedrai.

Ti avvisto, il cuore non mente mai, lancio uno sguardo interlocutorio ma tu mi hai già individuato: vieni verso me, corri sulle tue ballerine, alta slanciata, adeguatamente magra. Il berretto sulla fronte armonizza la forma dei lunghi capelli neri, sulle spalle. Mi guardi attraverso gli occhiali, sorridi. Ci riconosciamo. Aspettative, raffigurazioni e realtà si incontrano e si miscelano come colori a tempera; cercano una sintesi cromatica laddove sintesi non può esserci. E’ un dato nuovo, polimorfo e sfaccettato: la realtà. Che bel colore che ha la realtà quando ravvisi questo mood. Sì, mood (mi permetto un termine tecnico).

Ci salutiamo guardando finalmente negli occhi di ognuno, ricomponendo e completando – in pochi attimi – l’immagine che ognuno di noi aveva elaborato dell’altro coi altri dati [fondamentali] della realtà. Il profumo, lo sguardo, la morbidezza della pelle, la delicatezza delle mani, i movimenti del corpo, delle labbra e gli sguardi si aggiungono a completare quei frammenti di tratti immaginati, intuiti tra le parole e le righe di parole e dalla forma flessiva della voce.

Impacciato nella mia giacca a vento e dalle bretelle dello zaino appesantito dal computer passeggiamo sul lungomare autunnale – che si prepara al Natale – fino ad arrivare al ponte sulla foce del fiume. Lo imbocchiamo camminando fianco a fianco, sempre più prossimi, fermandoci di tanto in tanto per regalarci il sorriso che accompagna commenti e dialoghi mentre ci raccontiamo. Ci fermiamo ad ammirare il mare, sconfinato, ad est e le montagne, subito a ridosso, ad ovest.

Un giro, come una danza allo specchio, e ci ritroviamo faccia a faccia e spontaneo nasce un abbraccio [in cui le mani, con discrezione, cercano luoghi dove è possibile trovare brividi o vibrazioni] ed un bacio scambiato, tenero, innocente. Delicato e breve; accompagnato solo dal silenzio delle parole che compongono i nostri rispettivi pensieri in quel momento. Guidati dal cuore e sospinti dall’anima. Un attimo dentro il quale riconosciamo l’avvio di un tempo, rimasto sospeso, che riprende a scorrere. Un fotogramma intenso per entrambi: la foto da mettere sullo scrittoio.

Quel momento, sul ponte, attimo fuggente per gli osservatori esterni, diventa per noi metafora identificativa del tema dialogico: il “nuovo”. Metafora di azioni e progetti: grandi ma possibili. Sogni da realizzare subito. Presto. Un ponte da attraversare, che si apre sulla sponda di una vita nuova lasciando alle spalle quella fin qui passivamente accolta; accettata con molti compromessi e sofferenze. E soprattutto priva di futuro. Sì, quel ponte sul quale abbiamo passeggiato diventa adesso simbolo di rinascita. Momento di promesse reciproche di sostegno per attraversare le difficoltà e superare i dolori e lasciare la tristezza delle scelte – divenute “errori” – alle spalle. Non c’è più bisogno di energie disumane per guatare il fiume e fuggire: bisogna imparare a gestire le vertigini.

Torniamo indietro sul lungomare e i racconti – certi ognuno di questa nuova dimensione – rotolano fuori dalla bocca senza pause. Definiamo inconsapevolmente certezze acquisiste con quell’abbraccio. Senza timore né paura ci affidiamo l’uno all’altra: sicuri. Le nostre mani provano a tenersi e trasmettono sicurezza. Le situazioni angoscianti, tremende da affrontare e difficili da superare, adesso sembrano lasciare spazio ad un progetto di rinnovamento. Seduti in un bar del centro consumiamo – oltre alle bevande – il resto delle poche ore a disposizione. Scambiandoci qualche oggetto, scelto e portato, come ricordo. C’è aria di rinnovata gioia negli sguardi; sembra proprio complicità. La speranza ha lasciato posto alla realtà, al vero. Alla vita.

Un altro treno, da lì a poco, mi riporterà a casa quando ormai sarà notte. Non importa quanto tardi sarà perché sarà appena dopo averti lasciato. Non sarò solo stanotte; non più. Sento viva la tua presenza ed il tuo desiderio di avvicinarti ad un aeroporto per ricominciare (o imparare) a volare. C’è certezza in tutto questo; una combinazione chimica nota. Non solubile.

Marciapiede della stazione ferroviaria, binario 4: il treno è in arrivo da Sud. Puntuale. Ci salutiamo in maniera delicatamente naturale e salgo sul treno. Mi giro, le porte sono ancora aperte, mi sporgo, guardo il segnale per il macchinista. Ho tempo. Scendo rapidamente dal treno per un ultimo bacio ed un indispensabile abbraccio, solo pochi secondi: il semaforo diventa giallo e distinto arriva netto e perentorio il fischio del capotreno. Salto i tre gradini appena in tempo. I battiti del cuore sono andati fuori fase: ho quasi un capogiro. A volte mi capita. Colgo il tuo sorriso oltre il vetro e vedo i tuoi occhi che si preparano alle lacrime; chiudo i miei come a ringraziare dio. Mi ripeto di sentirmi, finalmente, felice. Non riesco a crederci. Non è possibile: io? Chi me lo doveva dire? Tu, io: non siamo più soli. Adesso.

Prendo posto, provo a riprendere il ritmo del respiro. Accendo il computer e scrivo; ti inoltrerò il file per posta elettronica appena arrivato a casa. Scrivo anche qualcosa che il cuore mi detta – ma che non saprei dire a voce – che conserverò: te la farò leggere un giorno, tra qualche anno. Sì, vedo un futuro. Spengo, chiudo gli occhi. Ho la sensazione di essere (io) quel ponte utile per attraversare quel fiume tempestoso che ha ostacolato il tuo cammino, i tuoi sogni. Quel fiume agitato, turbolento, da far paura che ti ha allontanata dalla tua strada. Bisogna affrontarlo, superarlo e riprendere a vivere: a crescere. A volare.

Penso e credo che quanto accaduto sia l’inizio di una [bella] storia: da raccontare. Gridare. Decine di risvolti da favola, incantevoli, delicati, incredibili tanto da sembrare un sogno, sono (adesso) realtà. Una magia da scrivere vivendo insieme; giorno dopo giorno. Tutto è cambiato dentro me: mi sento nuovamente vivo. Che regalo mi ha fatto la vita. Quando tutto era già andato. Tutto era finito e invece eccomi qui a ridere. Felice.

Che gioia mi ha donato, oggi, la vita. Tutto mi ha fatto pensare all’inizio di una storia e invece no: questa è (stata) la fine della storia. 

Nessuna favola è iniziata sul ponte: tutto è finito lì. Questa è la (vera) storia.

https://www.youtube.com/watch?v=oCduKbDuzmY

Tutti gli Dei contro: la resa

Le note dell’inciso di Birdland, come eseguite da un carillon, si diffondono dal cellulare su un sottofondo di pensieri e pioggia; sono tentato a cantare la parte in chiave di Soprano. L’allegria, la gioia, di questo brano è incontenibile; stona notevolmente con le note di umore amaro che mi è appena salito in bocca. Vorrei ascoltarlo, adesso, dall’impianto in auto: a volume tale da coprire lo squillo del telefono. E dimenticare. Yeah.

Down them stairs, lose them cares Where? Down in Birdland

Total swing, Bop was king there; Down in Birdland

Bird would cook, Max would look Where? Down in Birdland

Miles came through, ‘Trane came too there; Down in Birdland

Basie blew, Blakie too Where? Down in Birdland

Cannonball played that hall there

Down in Birdland, yeah.

Renato, scusa non ho “visto” la chiamata; dove sei arrivato? Sono qui, sotto casa tua: davanti al cancello. Bene, allora scendo. Arrivo subito.

Ingrano la retromarcia ma non vedo nulla; faccio il giro della piazza e mi fermo davanti all’enorme cancello in ferro battuto. Quello di sempre. Ti vedo, scendo per aprirti la portiera ma è andata via la corrente elettrica e il cancello non si apre; il gruppo di sicurezza non risponde. Ancora una barriera, tra me e te. Ritorno in auto, mezzo inzuppato, tu rientri per uscire dal portone.

Sali in auto, incrociamo gli sguardi e scoppia un sorriso reciproco. Quello che chiamo (inutilmente) “magia”. Finalmente. Sfidiamo la tormenta e ci avviamo in centro; il lungomare di Marina Garibaldi è perfettamente un lago ingrossato. L’acqua arriva alla portiera dell’auto; torniamo indietro. Meglio stare lontani dalla confluenza incontenibile dei torrenti di pioggia che si sono creati nei vicoli.

Cambiamo programma. Prendiamo la tua auto e definiamo la meta: su per le colline. Bella auto la tua; di rappresentanza.

Ma che dici, Renato: non mi rappresenta per niente. Allora diciamo che serve a nascondere (strategicamente) la tua immagine? Non avevi detto che non fai (più) lo psicologo? Scusa ogni tanto mi scappa di “incipriarmi il naso”.

Allora dove andiamo? Un ristorante carino in un borgo qui vicino, vedrai ti piacerà; c’è aria Medievale. Accidenti ma qui ci sono stato, moltissimi anni fa, un concerto dentro le mura del Castello. Indimenticabile.

Mi fa piacere vedere e percepire il tuo entusiasmo Renato, sono contenta. Allora sei veramente un musicista? Qualcuno mi ha detto (bene) di te ma io voglio “sentire” da te; scoprirti. Direttamente. Senza mediazioni.

Attenta, potresti rimanere delusa.

Capisco: qualche ferita di troppo. Lo sento dalla inflessione della tua voce, dal ritmo.

Vuoi rispolverare la tua laurea (in psicologia) con me? No, per piacere: quella non esiste. Faccio altro.

Il locale che rappresentava la nostra meta è chiuso per ferie, scherziamo su questo costante “zampino” messo dagli Dei in ogni cosa noi si decida di fare. Ancora qualche curva verso la vallata e ci siamo; finalmente. Intanto ha smesso anche di piovere. L’aria profuma di legna bagnata.

Un tavolo per due? Sì grazie. Magari uno vicino alla finestra; aggiungi con la tua voce serena mentre muovi il tuo esile corpo tra i tavoli. Mi precedi con fare deciso; mi piace osservarti di spalle. Questo va benissimo rispondo al cameriere – che ce ne mostra uno – dopo aver guardato dentro i tuoi occhi. Sorridi, socchiudi gli occhi e posi la borsa, ti siedi ed io di fianco a te. Ci accordiamo con le richieste/offerte del cameriere e ci immergiamo nelle parole e negli sguardi di ognuno.

Nell’aria comincia a comporsi un sapore di complicità ma soprattutto di desiderio di ascoltare, conoscere, sapere. Un incontro perfettamente gestito dal fato, dal caso. Inaspettato e soprattutto incredibile.

Dove eravamo stati fino ad ora? Ognuno al suo posto nella vita; nulla ancora ci aveva avvicinati e soprattutto non immaginavamo fosse possibile alcuna probabilità. Non avremmo mai sospettato che sarebbe potuto accadere. Per caso.

Adoro il tuo anticonformismo da ribelle, non quello “alternativo” ma quello reale che va contro le convenzioni che realizza progetti e diventa esempio. Mi sento coinvolto.

A quanto vedo [e segretamente so], non sei stato da meno tu nella tua vita, Renato. Piuttosto è fantastico quello che sei riuscito a fare, realizzare, nella vita; ascoltarti mi affascina. Le tue spiegazioni mi sorprendono ma sono certa che tu lo sai già. No?

Adesso mi fai sorridere ed (anche) arrossire: io non ho fatto nulla anzi vorrei scoprire ancora qualcosa da fare; mi resta poco tempo e ho ancora tanta voglia di fare. Ma lasciamo perdere me; anche tu hai deciso e realizzato qualcosa di bello e devi portarlo avanti. Ma che dici? Sono ancora davanti ad una lunga serie di cose da mettere a posto e spesso perdo energie e non trovo tempo per me. Per le mie cose. Ma adesso vorrei ancora ascoltarti; dimmi come hai fatto ad arrivare qui? Al nostro incontro.

Storia interessante, arti seduttrici (naturali) della vita. Strategie inspiegabili che lavorano per fare incontrare le persone: l’arte dell’incontro. Allora inizia. Come hai incontrato Jean Claud; è lui – come hai detto – il fulcro della storia, no?

Sì, è lui che ha trovato il legame tra le cose. Non riesco a immaginare cosa e come sia accaduto. Vuoi tenermi ancora sulle spine? No, però iniziamo a mangiare. Adesso ho veramente fame.

Se non mi racconti, potrei iniziare uno sciopero della fame, qui, adesso. A proposito da quanto tempo ci “rincorriamo” per realizzare questo incontro? Un mese?

No, di più. E’ facile: dalla presentazione del mio libro, sono trascorsi due mesi e mezzo. E’ vero. Dopo il nostro (primo) incontro mi hai invitata alla presentazione che era da lì a due, tre giorni. E’ vero, caspita tutto questo tempo? Già. Vuoi perdere altro tempo? No, per carità.

Allora. Era l’ultimo giorno di Marzo, un giorno nero [soprattutto per chi crede che Marzo è speranza di vita]. Una e-mail, attesa da molto tempo – e richiesta da altrettanto – azzerava la relazione sentimentale nella quale avevo riposto [ingenuamente] un progetto di futuro: un disegno di vita veramente stravolgente per le cose che desiderava realizzare. Una “delusione” che non avrei mai pensato di dover affrontare, era arrivata ormai decomposta, putrefatta, in ogni sua parte; ogni possibile tentativo di ricostruzione era stato ormai inquinato, alterato, distorto ed avvelenato. Rimaneva da fare solo l’autopsia.

L’anatomia di quella relazione era stata completamente stravolta, falsificata. O forse era falsa fin dall’inizio. Non lo so ancora. Forse non mi interesserà più saperlo, un giorno; ma deve ancora arrivarci.

Scusa Renato, ti ho chiesto di Jean Claud. Vuoi parlarmi anche di Adamo ed Eva?

E’ vero, però la premessa ha importanza: volevo sottolineare che questo “incontro” con Jean Claud mi ha permesso, lentamente, di respirare. Ero veramente a terra al punto che avevo riferito ad un amico di non poterlo più aiutare nel suo lavoro; non ci stavo più con la serenità. Arrivato a casa – quasi ora di cena – mentre cercavo un pensiero capace di disinfettare la ferita, squilla il telefono: “Il Professor Gentile? Scusi l’orario, spero di non disturbare, mi chiamo Jean Claud e sono un giornalista [di Rai Tre], una mia collaboratrice ha scoperto, cercando sul web, che lei è stato allievo del Professor Silvio Ceccato e siccome….”

Hai pensato ad uno scherzo? No, per nulla [a parte un primo fugace sospetto dato dalla nota di accento francese], ha dato subito precise indicazioni e riferimenti a me noti: lui è veramente un allievo di Ceccato. Il resto riesci ad immaginarlo. No?

Bene, sì, ci arrivo. Mi mancano dei passaggi ma una cosa è certa: grazie a tutto questo ti sei presentato, inatteso, a casa mia. E mi hai colpito, lo sai. Lo ricordi? No, scusa: tu mi hai colpito. Perbacco: la tua e-mail. Non potrò mai dimenticarla; come il fatto che tu sia venuta alla presentazione del libro. Ero certo che saresti venuta ma mi sono meravigliato quando ti ho vista arrivare.

Questa però devi spiegarmela Renato, vai: una delle tue spiegazioni da rocciatore.

Ridiamo e riprendiamo a pranzare; oddio quante portate ma quando finiranno? E poi il vino è veramente buono. Mi racconti di te, dell’Università, di Roma e del tuo lavoro appassionante di restauro. Mi permetti di regalarti alcuni miei modi di pensare, fare, credere. Del perché di alcune scelte o (forse) errori. Tu fai altrettanto ma apri poco quello scrigno di pensieri, ricordi ed eventi che vorresti regalarmi. Forse ancora non ti fidi; è giusto. O forse sei proprio così, riservata, misteriosa. Non sei sospettosa. Perfettamente tenera nella tua determinazione. Non c’è nulla di banale, scontato, in te. Non può essere che così.

Alla fine dici di volermi chiedere una cosa che, da ore, rimandi di volta in volta: la tua presentazione mi è piaciuta un mondo. In ogni sua parte: volevo chiederti quanto ci hai lavorato. Non ho mai visto niente di simile.

Ti faccio le ultime confessioni e rimani sorpresa dalle risposte; guardo i tuoi occhi e leggo che sei serena. Non si può definire felicità ma è qualcosa che le somiglia anche se non ha nome né corpo; né idea, né programmi. E soprattutto un futuro. Sono quasi le 16, il Cucciolo sta aspettando il tuo ritorno a casa; si va via? Sì, dai.

Imbocchiamo il vialetto di ghiaia sotto le palme ancora intrise di pioggia; l’odore dell’ozono e dell’erba bagnata ci invade appoggiandosi sui vestiti per arrivare ai pensieri attraverso la pelle. Quella pelle appena sfiorata, senza malizia, nella danza dei piatti del pranzo.

Allora che mi dici Renato? chiedi mentre allacci la cintura ed avvii il motore.

Dico che se dovessi morire adesso potrei anche farlo. L’auto si muove decisa, sicura.

Come fai ad essere così felice per così poco? Mi piace questa tua filosofia e come la trasporti nella tua vita giornaliera senza darlo a vedere.

La cosa che vorresti fare se dovessi morire? Bella domanda; donna audace. Secondo me vuoi finalmente fare la psicologa. Chiederei solo di telefonare a mio figlio per dirgli che ho trascorso una bellissima giornata e che questa serenità mi pervade.

Ti giri con un sorriso per guardarmi e ti accorgi che i miei occhi sono appena lucidi.

Non smettere di “stupirmi” con le tue parole Renato.

E tu non smettere di cancellare la mia malinconia, Anna – .